Spadolini “Per un refit di successo serve cultura”
L’architetto racconta a SUPER YACHT 24 i segreti e le sfide principali del refit. Serve capire la storia dello yacht su cui si lavorerà e guidare l’armatore verso scelte che ne rispettino la filosofia

Tommaso Spadolini, progettista nautico con oltre quattro decenni di esperienza, è conosciuto non solo i suoi progetti, ma anche per la sua esperienza nel refitting di superyacht e imbarcazioni storiche. La sua filosofia si basa sul rispetto per il design originale dell’imbarcazione, combinato con l’integrazione di soluzioni moderne che soddisfano esigenze e richieste dei nuovi armatori. Un focus su questo mondo non poteva prescindere dal suo punto di vista. SUPER YACHT 24 lo ha intervistato per capire quali sono oggi le esigenze e le richieste dei clienti e fino a che punto può spingersi un progettista nel soddisfarle.
Come spiega la crescita del refit in Italia negli ultimi anni?
“Ci sono tre fattori fondamentali che hanno inciso negli ultimi 10/12 anni. Innanzitutto, da quando è venuto meno il leasing italiano e con l’aumento dell’Iva sulle nuove imbarcazioni, diversi armatori preferiscono rimettere a posto il loro yacht senza acquistarne uno nuovo. Un altro motivo è la carenza di posti barca in Italia che scoraggia la scelta di un modello più grande. Infine, non è facile trovare equipaggi qualificati per le barche più grandi, quindi spesso si preferisce mantenere quella esistente e il suo equipaggio. Per gli armatori stranieri è diverso, amano oggetti datati o anche datatissimi, non hanno il problema dell’Iva e il loro rapporto con l’equipaggio è diverso, è più ‘freddo’. Per noi l’equipaggio è un pezzo di famiglia e l’affiatamento tra armatore ed equipaggio è una parte importante”.
Quali sono le sfide maggiori per un progettista?
“Quando l’armatore di un 46 metri chiede di tagliare la prua e allungare lo yacht di un metro e mezzo le sfide sono moltissime. La principale è mantenere intatta la filosofia originale della barca, la sua struttura e l’armonia delle forme. Bisogna evitare di stravolgere l’identità dell’imbarcazione, anche quando si apportano modifiche significative. Ad esempio, ho lavorato su cinque Magnum rivoluzionando gli interni, ma le linee esterne disegnate da Sergio Pininfarina non le ho mai toccate, sono troppo belle. Sono oggetti che hanno una loro storia che non va rovinata nessun modo. Per fare i refit serve cultura e ho visto spesso rovinare imbarcazioni da gente senza cultura che segue solo le richieste del cliente”.
Qual è la ricetta per un buon refit?
“Tutti gli yacht sono belli, alcuni hanno più charme e prima dei lavori è necessario studiare la storia dell’oggetto e capire come e perché è nato. Quando lavoro su modelli di circa 20 anni il progettista di solito è ancora in vita e lo chiamo sempre per avvisarlo e capire se ci sono problemi o meno. Questo modo di comportarsi fa parte di una cultura che non sempre è stata rispettata, ma io ritengo che sia fondamentale per capire perché quella barca è nata con quella filosofia. Dopo si possono fare le modifiche e adattarla a nuove esigenze”.
Quali sono gli errori da evitare?
“Bisogna evitare di “deturpare” la barca con interventi che non rispettano la sua storia e il suo design. Non bisogna seguire ciecamente i gusti del cliente, ma guidarlo verso scelte consapevoli e coerenti con l’identità dell’imbarcazione. Il cliente deve fidarsi del progettista e seguirne i consigli, pur esprimendo le proprie esigenze. Un buon rapporto permette di trovare il giusto equilibrio tra estetica, funzionalità e rispetto per la storia della barca”.
Come concilia i desideri del cliente con le esigenze tecniche e progettuali?
“Il mio obiettivo è trovare un punto d’incontro tra i desideri del cliente e le esigenze della barca. A volte, questo significa scendere a compromessi o trovare soluzioni creative. Ricordo il caso di un cliente che voleva dormire con la testa a poppa su un Magnum: ho dovuto disegnare il letto con una zeppa per compensare l’inclinazione naturale che tutti i Magnum hanno a barca ferma, in porto”.
Una barca refittata può risultare migliore di come era in origine?
“Sì, il refitting offre l’opportunità di migliorare un’imbarcazione sfruttando nuove tecnologie e competenze attuali. Tuttavia è fondamentale sottolineare che questo miglioramento non significa che i progettisti e i costruttori del passato fossero meno capaci, semplicemente il progresso tecnologico mette a disposizione strumenti e soluzioni che prima non esistevano. Prendiamo ad esempio il caso del Magnum 63 Fury su cui ho avuto modo di lavorare: in origine montava un motore Gm 16V92 sostituito con un Mtu 12V serie 2000, ottenendo prestazioni superiori e una sala macchine più spaziosa e funzionale”.
Di quali lavoro è più orgoglioso?
“Il Sangermani di 10,30 metri, la seconda barca a motore fatta nel ‘62 dal cantiere. In quell’occasione ho salvato persino gli interruttori in ottone, il laminato bianco con cui si facevano cucine e rivestimento dei bagni. La barca ha ancora il lavello originale stampato in un blocco di acciaio lucido. L’abbiamo rimotorizzata e adesso fa 20/21 nodi contro gli 11 di prima. L’armatore la tiene sotto casa propria a Gaeta e ci va a Ponza, Ventotene, la usa come barca giornaliera o per dormirci al massimo una notte. È stata trovata abbandonata in un cantiere a Carrara e l’abbiamo riportata a navigare, queste sono soddisfazioni che riempiono il cuore per un cultore del mare come sono io. Altri sarebbero entrati con la motosega buttando via tutto, servono clienti che capiscano questa filosofia”.
Un altro esempio?
“Il 37 metri Madhuri del cantiere Eurocraft, una barca planante di alluminio con due motori Mtu e 32 nodi di velocità. Il primo cliente l’aveva voluta senza neanche un oblò a scafo e con interni di legno stile baita da montagna con tanto di camino. Con il nuovo armatore abbiamo rifatto il fly, aggiunto diverse finestrature e rifatto completamente gli interni con la collaborazione del designer americano Peter Marino. Anche questa è stata una sfida bella e complessa, oggi la barca si chiama A2”.
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