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Capt. Mattia Dzaja: “Capire anche la prospettiva del cantiere fa la differenza”

Parla anche di sicurezza a bordo il comandante cui è stata affidata la fase di collaudi del nuovo s/y Katana di Perini, consegnato al cliente dopo un trasferimento da Marina di Carrara a Gibilterra

di Alberto Mariotti
5 Agosto 2025
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Mattia Dzaja, classe 1977, è uno dei più esperti comandanti italiani, con oltre 25 anni di esperienza tanto nel motore quanto nella vela (per questo è stato invitato come speaker al Sailing Super Yacht Forum del 2 dicembre prossimo a Genova). Figlio d’arte, ha sempre vissuto a bordo, lavorando con alcuni dei più importante superyacht che navigano in giro per il mondo. SUPER YACHT 24 lo ha raggiunto dopo la consegna del nuovissimo Perini Katana, un ketch di 60 metri che gli ha dato l’opportunità di approfondire anche la prospettiva del cantiere e non solo quella dell’armatore. 

Dzaja come è iniziata la collaborazione con Perini per la consegna di Katana?

“Mi hanno chiamato appena sbarcato dal lavoro precedente, avevo tempo libero e conosco il cantiere da oltre dieci anni. Serviva un comandante che seguisse la fase di consegna e i primi test, ma più che altro volevano un ‘amico’ che potesse controllare strumentazioni e attrezzature”.

Di cosa si è occupato esattamente?

“Ogni uscita era preceduta da una giornata di controlli: riunione a bordo con il team del cantiere, il responsabile di progetto e dei vari componenti dello yacht. Si controllava tutto: motori, timoni, vele, strumenti. Caricavamo le rotte e il giorno dopo si andava in mare per verificare e segnalare eventuali problemi”.

Com’è stato vivere il cantiere da dentro?

“È stata una grande esperienza. Da comandante ero sempre stato dalla parte del cliente, guardando tutto da una sola prospettiva e pretendendo che fosse quella giusta, perché chi paga ha sempre ragione. Io ero nel giusto e gli altri sbagliavano. Invece, guardare cosa succede dietro le quinte, assistere, ascoltare e vedere le difficoltà mi ha dato la possibilità di comprendere che noi comandanti a volte ci fermiamo all’apparenza”.

Ha cambiato parere e punto di vista?

“Sì, ho capito che a volte quando il cantiere dice ‘no’ non è per cattiveria, vorrebbe ma non può. Sul Katana il team ci ha messo il cuore, e l’ho visto durante la traversata fino a Gibilterra: erano innamorati della barca. Molti venivano dalla vecchia società Perini, e nel Katana hanno rivisto l’orgoglio di un sogno italiano, il sogno di un uomo – Fabio Perini – che ha realizzato qualcosa che non esisteva al mondo, perché i superyacht a vela sono nati con lui, tutti gli altri sono arrivati dopo”.

Quindi la consegna è stata puntuale?

“Sì, il team guidato da Giulio Pennacchio e Giulia Ginepro (Nca Refit|The Italian Sea Group) ha lavorato senza sosta, anche il sabato e la domenica, e senza mai far cadere la penna alle cinque del pomeriggio. Il team ha lavorato per due anni pieni, e gli ultimi otto mesi sono stati intensi. Volevano consegnare la barca nei tempi e al massimo delle condizioni. Uno yacht è imperfetto per definizione, dal varo al disarmo e questo ovunque nel mondo: Italia, Olanda, Germania, Turchia. Ma deve essere operativo, deve essere pronto per navigare e il Katana lo era. Ci hanno messo l’anima”.

Come si è svolta la traversata verso Gibilterra?

“Siamo partiti da Marina di Carrara e arrivati a Gibilterra senza fermarci, impostando la navigazione come un ‘extended sea trial’. Ho scelto una rotta costiera per prudenza, per avere sempre la costa vicina e i telefoni funzionanti, anche perché a bordo c’erano diversi tecnici e non solo equipaggio esperto e preparato”.

Avete fatto esercitazioni?

“Certo. Appena usciti, abbiamo fatto alcune esercitazioni di emergenza, partendo dalla più importante: la simulazione di uomo a mare. Utile non solo per esercitarsi ma anche per dimostrare quanto sia difficile essere visti e recuperati anche in condizioni meteo perfette, e sviluppare la consapevolezza che non bisogna mai mettersi nella situazione di cadere in mare”.

Ha stabilito regole di bordo a tal proposito?

“Nessuno va a prua o a poppa durante la navigazione, soprattutto di notte. La zona sicura era solo il flybridge, dove l’ufficiale di guardia può controllare tutto. In caso di esigenza operativa, si notifica lo spostamento, e l’ufficiale presta attenzione per tutto il tempo necessario all’operazione, fino a che non si rientra nella zona di sicurezza”.

E di notte?

“Io magari esagero, ma quando il mio ufficiale mi chiede di assentarsi per andare in bagno o per un caffè, io faccio partire il timer, e se dopo 10/15 minuti non lo vedo, inizio a preoccuparmi. Magari ha avuto un malore, ha sbattuto la testa o è svenuto. Chiedo sempre di avvisarmi per qualsiasi spostamento. Se penso che una persona stia dormendo e invece è fuori e cade in mare, lo scopro ore e decine di miglia dopo. Chi lo trova più? Anche se cadi con mare piatto, dopo 80 metri non ti vediamo più: una testa in acqua è come un gavitello grigio su mare grigio. È finita”.

In quanti eravate a bordo?

“Eravamo in nove, tecnici inclusi. Due ufficiali titolati per le guardie, un marinaio, il capobarca, un responsabile delle vele, un tubista per eventuali perdite, un elettronico per monitoraggio e cablaggio e il direttore di macchina. Inoltre c’erano anche cinque rappresentanti dell’armatore, ma solo come osservatori”.

A quali altre situazioni vi siete preparati?

“Abbandono nave, incendio, incaglio e pirateria. Abbiamo preparato le ‘abandon bag’: sacche da 60 litri piene d’acqua e viveri, fluorescenti e galleggianti, da buttare in zattera. La muster station è il luogo dove tutti devono riunirsi in caso di emergenza, mentre la muster list assegna un compito a ciascun membro dell’equipaggio, ed è affissa in plancia, crew mess e control room”.

Gli incendi sono comuni?

“Ogni estate succede qualcosa, basta una distrazione come lasciare l’olio sui fuochi, luci accese, sbadataggini varie. Abbiamo mostrato tutti gli estintori, i call point – scatole rosse d’emergenza che attivano il sistema antincendio – e spiegato come reagire. Ai corsi Stcw insegnano come comportarsi e a seguire la procedura. Ogni cinque anni è previsto un richiamo che dura due giorni e mezzo. Non ti trasforma in pompiere, ma ti aiuta a capire che il rischio di morire è elevato e di ponderare bene le tue capacità e possibilità”.

Integra in qualche modo le conoscenze antincendio dell’equipaggio?

“Di solito, sulle barche dove lavoro, ogni anno organizzo un corso di aggiornamento con la società C.M.A. Sistemi Antincendio di Pegli, a Genova. Vengono a bordo, ispezionano, simulano un incendio e addestrano l’equipaggio. Per esempio, molti non sanno che l’uscita di emergenza è in alto, ma l’aria calda e il fumo salgono. Se devi salire, ti ustioni. Ti insegnano a strisciare a terra, dove l’aria è respirabile”.

Quali sono le tecnologie antincendio a bordo?

“Sulle nuove costruzioni ci sono porte stagne, porte tagliafuoco, sprinkler con fialette che scoppiano al calore. Il sistema High Fog diffonde acqua super nebulizzata, abbassa la temperatura, soffoca il fuoco. Se quello non basta, la barca è persa”.

Cosa vi ha insegnato il Bayesian?

“L’affondamento del Bayesian è diventato il nostro ‘anno zero’, come il Covid per il mondo. Ha fatto scuola e ha toccato tutti i temi: stabilità, safety, evacuazione. Sono stato comandante Perini e sono sicuro che anche gli altri avranno riletto con attenzione lo stability booklet. La paura c’è stata, e i dubbi su come possa essere affondata sono tanti. Una raffica di vento? In Patagonia ho preso 83 nodi e sono ancora qui. La verità è che non si sa ancora cos’è successo, e immagino siano diverse concause. Aspettiamo il report ufficiale, quello vero. Quando uscirà, si faranno i conti”.

Avete cambiato alcune procedure?

“Oggi un comandante ci pensa due volte prima di lasciare un portellone aperto dopo il tramonto, anche se l’armatore vuole farsi il bagno. Anche i cantieri dovranno ripensare alcuni aspetti: magari aggiungere altri allarmi, telecamere e rivedere alcune procedure. Per esempio, per aprire un portellone o un balcone si deve richiedere l’ok al comandante e ricevere un codice di sblocco. Non basta più che il marinaio prema un pulsante e apra ciò che vuole. Sull’ultimo yacht che ho comandato, ognuno dei responsabili aveva un codice personale”.

Che ricordo le lascia questa esperienza?

“Più che tecnica, è stata un’esperienza umana. Tutti partecipi di un’avventura, non solo una delivery. Portavamo quello che per molti era “l’ultimo Perini”, quasi un passaggio di consegne. La dedizione che ho visto a bordo non la dimenticherò. E ora, quando lavorerò su una nuova costruzione in cantiere, guarderò quelle persone con occhi diversi”.

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Il prossimo 2 dicembre SUPER YACHT 24 organizza a Genova il 1° Sailing Super Yacht Forum

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