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Vannis Marchi (Fabbrica Italiana Motoscafi): “Una vita al timone, in mare e in cielo, tra incoscienza ed entusiasmo”

Imprenditore irrequieto, dal tessile alla nautica, racconta i momenti chiave della sua carriera e le sfide affrontate tra mare e cielo: “Ho avuto tanto coraggio e anche un po’ di fortuna”

di Giuseppe Orrù
29 Ottobre 2025
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Vannis Marchi (1)

Questa intervista è stata pubblicata in anteprima nel numero 4-2025 del supplemento Yacht Upstream di SUPER YACHT 24 disponibile a questo link

 

La vita di Vannis Marchi sembra un romanzo d’avventura. Partito da una friggitoria di famiglia a Carpi, ha costruito imperi nella moda con Liu Jo e nell’edilizia di lusso. Oggi è anche protagonista della nautica con Fim – Fabbrica Italiana Motoscafi, di cui è socio insieme a Corrado Piccinelli e Manuela Barcella. A quasi 80 anni conserva l’entusiasmo di un ragazzo, la curiosità di chi non si accontenta mai e la passione autentica per il mare.

Vannis Marchi, lei ha cominciato a lavorare giovanissimo. Cosa ricorda di quegli anni?
“Ricordo soprattutto la mia voglia di fare. Mio padre aveva una friggitoria; io a 18 anni mi sono comprato una furgonetta e ho iniziato a vendere i dolciumi in giro. Andavo nei negozi, caricavo le casse di dolci e tentavo la vendita. Forse ero troppo giovane per incutere timore: nessuno mi diceva di no. Alla fine, dopo sei mesi, guadagnavo quattro o cinque volte lo stipendio di un operaio. Con quei soldi, a 18 anni e mezzo, mi sono comprato la mia Spider Alfa Romeo rossa. Era un segno: non avevo paura di rischiare. Poi però è arrivato il militare e ho dovuto vendere tutto”.

E come è arrivato all’abbigliamento?
“A Carpi la maglieria era un’occasione unica. Ho iniziato con i jeans Clay Ragazzoni, fatti in Brasile: bellissimo tessuto ma vestibilità sbagliata per gli italiani. Non ne vendevo uno. Allora sono passato alle maglie: andavo nei maglifici, caricavo i cartoni e facevo la tentata vendita all’ingrosso nei mercati. Partivo alle 3 di notte, alle 5 ero già lì con il mio banchetto, gli ambulanti sapevano che mi trovavano. A mezzogiorno raccoglievo i soldi e il pomeriggio riassortivo. È stata una scuola durissima, ma mi ha insegnato il ritmo del lavoro e la psicologia del commercio”.

Quando è arrivato il salto verso la produzione propria?
“Dopo anni mi sono stancato di comprare dagli altri. Con mio fratello, che aveva talento nello stile, abbiamo deciso di creare un nostro marchio. Io ero il marketing, lui la creatività. Così è nata Depeche, che produceva per grandi brand e arrivava a due milioni di pezzi all’anno. Poi è cambiato tutto: Turchia e Cina abbassarono i prezzi e il nostro mercato si stava sgretolando. Lì abbiamo capito che serviva un brand nostro, forte, riconoscibile”.

Ed è così che nasce Liu Jo…
“Sì, nel 1995. Abbiamo iniziato praticamente da zero. Io ogni settimana andavo a Milano e portavo centinaia di magliette e vestitini a Lele Mora, che allora gestiva tutto il mondo televisivo delle soubrette. Non chiedevamo soldi, volevamo che i nostri capi si vedessero. E funzionava: quando all’Isola dei Famosi la De Blanc vinse indossando abito attillato firmato Liu Jo, il marchio decollò. Ogni volta che il logo compariva in tv, il fatturato saliva. Nel primo anno facevamo un milione di lire, il secondo due, il terzo cinque. Dopo 15 anni eravamo a 350-400 milioni. Oggi Liu Jo fattura 500 milioni di euro. È una soddisfazione vedere quanto è cresciuto”.

Si è spostato anche nell’edilizia…
“Sono sempre stato curioso e irrequieto. In Italia ho ristrutturato palazzi dell’Ottocento, poi in Romania ho creato un intero quartiere a Oradea: 2.700 appartamenti che ho chiamato Milano 5. Oradea è una città splendida e con un’economia in crescita rapidissima. Era un’opportunità che non potevo lasciarmi sfuggire. In quel periodo ho anche conosciuto Berlusconi, che da Presidente del Consiglio mi premiò tra le aziende più performanti dell’anno. Abbiamo passato ore a parlare: momenti che ricordo con piacere”.

Torniamo al mare. Quando è iniziata la sua passione per la nautica?
“A vent’anni, con un gommone di tre metri e mezzo. Poi sono passato a cinque metri, a sei e mezzo, e infine alla mia prima barca in vetroresina, un 25 piedi costruito a Venezia. Dopo sono arrivati un Sunseeker 34 Portofino, un Colombo 48 e oggi ho un Sarnico 58 da 15 anni. Ho fatto tante traversate in solitaria: partivo da La Spezia e raggiungevo Porto Rotondo. La mia famiglia partiva dieci giorni prima, io li raggiungevo da solo. Era un misto di incoscienza ed entusiasmo. Ho sempre portato io le mie barche: armatore e comandante”.

Cosa cerca in una barca?
“Prima di tutto la stabilità e la sicurezza. Mi piacciono le linee sportive, ma non ho mai avuto l’ossessione della velocità. In mare a 25-30 nodi si viaggia già bene. Cercavo barche belle, solide, affidabili. E soprattutto open: mi piace vivere il mare a cielo aperto”.

Ha vissuto momenti di pericolo in mare?
“Eccome. Una volta vicino a Gaeta, con mare forza 7-8, ho passato ore difficili. Al lago di Garda, con un 25 piedi, il tempo è cambiato in un attimo e onde enormi mi hanno quasi sommerso la barca. Un’altra volta ero con i miei figli piccoli su un 6,5 metri: in dieci minuti il lago è diventato nero, onde da tutte le parti. I bambini li ho messi sottocoperta con le coperte addosso, mentre io cercavo di mantenere la calma. In quei momenti serve sangue freddo. E un po’ di fortuna”.

Cosa ci racconta della sua passione per il volo e dell’incidente aereo?
“Ho sempre amato l’adrenalina. Ho iniziato con i deltaplani a motore, dieci anni di voli con una barra in mano. Poi per 30 anni ho avuto tre aerei Tecnam. Dopo l’incidente, tutti, specie mia figlia e il mio socio, mi hanno detto di smettere. Ho dovuto ascoltarli. In quell’incidente il sangue freddo mi ha salvato: l’abitacolo si stava riempiendo di benzina, potevo diventare una torcia umana. Sono uscito subito e mi sono allontanato di 30 metri. Quando arrivarono vigili e soccorsi mi cercavano credendo di trovare un morto. Io invece ero lì in piedi. Qualcuno mi ha definito ‘Superman’. Io rispondo che ho avuto solo tanto culo”.

Come è arrivato all’avventura con Fim?
“Tutto grazie a Corrado Piccinelli. Per anni mi ha seguito come tecnico sulla mia barca. A differenza di altri, che approfittavano di me, lui non mi ha mai fregato. Quando mi disse che voleva aprire un cantiere, io ci ho pensato una notte e il giorno dopo l’ho chiamato: ‘Corrado, se ti serve un finanziatore, io ci sono’. Così è nata Fim. In sei anni abbiamo lanciato la gamma Regina con i modelli 340, 440 e 500 e stiamo lavorando su una gamma inaffondabile (la Contessa il cui primo modello, il 560, sarà pronto per i saloni 2026 e Contessa 640 in collaborazione con DesignWorks, Innovation Studio di Bmw Group). Puoi colpire uno scoglio e torni comunque a casa con i tuoi passeggeri. È un progetto concreto e rivoluzionario”.

Cosa le piace delle barche Fim?
“La qualità, le linee equilibrate, i consumi contenuti, la stabilità. E la cura maniacale nei dettagli. Sono barche che ti fanno vivere il mare davvero, senza bisogno di yacht enormi. Io potrei permettermi di avere un 30 o 40 metri ma non mi interessa: voglio stare io al timone. È lo stesso motivo per cui, dopo qualche anno con un pilota personale, ho venduto l’aereo. Se non sono io a guidare, non mi diverto”.

Oggi come vive il mare?
“Ho una casa a Porto Rotondo e la mia barca la lascio lì. Prima ogni fine settimana ero a Mirabello, oggi passo uno o due mesi interi in Sardegna e la uso tutti i giorni. D’inverno no, non mi piace: il mare per me è sole, caldo, luce”.

Cosa desidera nella sua vita?

“La serenità. Ho la salute, una famiglia unita, un socio con cui c’è sintonia totale. Mi sveglio ogni giorno con progetti da seguire e idee nuove. Non voglio fermarmi: chi si ferma invecchia prima. Io invece voglio restare vivo, curioso. Mi definisco un imprenditore tuttofare. E posso dire una cosa? Sono felice”.

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