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Yacht

Un Comandante tra passione e pragmatismo: l’evoluzione del superyachting visto da bordo

Una riflessione lucida, quella del comandante Alberto Zambelli, che esplora il conflitto tra l’estetica e la solidità. La sua analisi si concentra sui rischi del “wow factor”, sulle problematiche del sottodimensionamento e sui vuoti normativi che minacciano la sicurezza a bordo

di Cinzia Garofoli
18 Agosto 2025
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Com.te Alberto Zambelli

SUPER YACHT 24 incontra Alberto Zambelli, comandante del 53 metri Friendship di Oceanco. Forte di un’esperienza che unisce il rigore tecnico-ingegneristico all’amore per il mare, ci offre una visione diretta e autorevole sulle sfide e le tendenze che stanno definendo il futuro del superyachting.

Comandante, quali sono stati gli eventi o le passioni che l’hanno spinta a intraprendere la carriera nel mondo dello yachting?

“La mia passione è nata con la vela, grazie a mio padre e mio fratello. Ho gareggiato per anni tra il Lago di Como e Stromboli, e questa immersione totale ha segnato la mia giovinezza. Un’esperienza fondamentale l’ho vissuta frequentando i corsi estivi dell’Accademia Navale di Livorno, che mi hanno insegnato la disciplina e il senso di identità di marinaio. La mia carriera è poi decollata dal charter, passando gradualmente da barche a vela a motore sia nel charter che nel privato, fino al comando attuale di un Oceanco di 53 metri per un armatore olandese.”

Lei ha un background familiare nell’ingegneria metalmeccanica. Quanto questa formazione “a terra” le è stata utile nella sua carriera in mare?

“E’ stata fondamentale. Mio padre e mio zio erano ingegneri metalmeccanici e la nostra azienda di famiglia si occupava di carpenteria metallica. Fin da piccolo sono stato abituato a “mettere le mani” sulle cose, a smontare e capire i meccanismi. Questa manualità e la formazione ingegneristica mi hanno dato una base solida per comprendere il funzionamento delle imbarcazioni e interfacciarmi con i direttori di macchina e gli ingegneri navali.”

Rimanendo nel tecnico: nello yachting attualmente si parla molto di “steer to green” e di barche ibride. Qual è la sua visione?

“Le barche ibride le abbiamo già da secoli: una barca a vela con un motore è intrinsecamente ibrida! Il punto è che oggi si aggiungono batterie e propulsioni ibride per alimentare yacht sempre più grandi e pieni di optional che consumano un’enorme quantità di energia. A mio avviso, questa tendenza rischia di diventare un’ipocrisia. L’industria sembra aver perso il vero senso della navigazione, rincorrendo soluzioni estetiche a discapito della funzionalità. Abbiamo visto tentativi simili in passato, quando il design minimalista della vela ha sacrificato la praticità: ad esempio, le ancore nascoste che, pur di non essere visibili, creavano continui problemi. Questa rincorsa al design a tutti i costi ha, in un certo senso, compromesso la solidità, una tendenza che oggi rivedo in alcune delle nuove costruzioni.”

Quali sono le sue perplessità su queste nuove costruzioni?

“Vedo sempre più immense vetrate incollate, e sebbene mi venga assicurato che si usano resine aeronautiche, la mia lunga esperienza mi porta ad avere qualche dubbio. Un’altra perplessità riguarda i ‘transformer’, ovvero quelle poppe che si aprono con ali e piattaforme mobili. Sono soluzioni amatissime dagli armatori, ma dal mio punto di vista si tratta di sistemi idraulici complessi che rimangono a lungo in acqua salata. E alla fine, siamo noi comandanti a doverli manutenere e a garantirne la funzionalità e la sicurezza.”

Nel caso dei transformer, in che modo possono incidere sulla sicurezza strutturale e operativa di un’imbarcazione?

“Questi grandi specchi di poppa aperti, nati per le barche molto ‘mediterranee’, possono creare seri problemi con le masse d’acqua, anche se è vero che sono destinate a navigazione costiera con altezze d’onda limitate. Il vero rischio, però, nasce quando gli armatori decidono di spingersi oltre i limiti per cui l’imbarcazione è stata progettata. Ho visto personalmente armatori che volevano andare ai Caraibi con un’imbarcazione destinata alla navigazione costiera. Ho anche avuto un armatore che ha comprato una barca degli anni ’90, molto performante per le sue dimensioni, e voleva andare in navigazione “Ice Class” solo perché un broker gli aveva detto che si poteva fare: cosa che tecnicamente era impossibile. E comunque, anche nel Mediterraneo, le barche affondano: il Golfo del Leone e i temporali estivi sono sempre più imprevedibili.”

Tra i temi ‘critici’ c’è quello del sottodimensionamento. Da cosa dipende?

“Il problema dipende dalla tendenza a voler massimizzare i volumi e gli spazi, ma a scapito del peso. Questo porta a linee di catena e ancore sottodimensionate e a uno scafo con chiglia e pescaggio non sufficienti. Il risultato sono barche che “arano” all’ancora, brandeggiando al vento anziché rimanere salde. Mentre una barca costruita con i criteri da mare del Nord mette “ferro in acqua” e sta tranquilla, su alcune barche moderne una veranda sul sundeck può diventare una “vela di mezzana” che sbilancia la poppa.

A mio parere, ciò è causato dal fatto che si vende la barca soprattutto per il charter e, nei saloni, si cerca il bello, il “wow factor”,  l'”esperienza” a bordo. I broker si sono organizzati per offrire pacchetti completi che includono il management e il recruitment, focalizzandosi sull’aspetto commerciale più che sulla solidità e sulla vera esperienza di navigazione. Personalmente trovo che una barca classica, paragonata ad una mediamente venduta oggi, stia in acqua in una maniera del tutto differente, abbia eleganza e forme che sono il frutto di centinaia di anni di studio nella progettazione, sviluppo e ottimizzazione delle linee d’acqua.”

La sua barca attuale è un 53 metri di Oceanco, quali sono le caratteristiche di questa barca che apprezza di più?

“Dà l’idea di stare in mare con una barca sicura. È olandese, costruita 25 anni fa. Ha la stessa misura di barche moderne, ma pesa quasi il doppio. Parliamo di un dislocamento di 600 tonnellate contro le 380 medie di un cantiere mediterraneo. Ha un pescaggio di quasi 4 metri, si muove morbidamente sull’acqua, prendendo il mare di prua in un modo che ti sorprende. Questa sensazione di movimento armonioso è difficile da trasmettere, ma per un marinaio è impagabile. La morbidezza, la silenziosità, l’assenza di vibrazioni: sono queste le cose che mi fanno innamorare di questa barca.”

E a livello di design?

“Ha un design particolare, che sposa l’innovazione con la sicurezza. Le grandissime vetrate, che 25 anni fa erano impensabili, la rendono luminosissima, facendole superare il concetto di ‘barca del Nord’ scura e chiusa. Questo risultato è ottenuto grazie a un sistema tradizionale e sicuro, con cornici d’acciaio avvitate: un approccio che a mio avviso rappresenta la migliore sintesi tra estetica e funzionalità.”

L’Italia è leader nella costruzione di superyacht, ma il Nord Europa continua ad avere un gradino più alto, soprattutto su certi tipi di barche. Come mai non seguiamo il loro approccio sulla stabilità e il peso?

“Credo sia una questione di mercato e di filosofia costruttiva. I cantieri del Nord Europa si rivolgono a un mercato orientato alla tradizione e all’altissima qualità. Lavorano su grandi dimensioni, con liste d’attesa enormi, e le loro imbarcazioni non sono per tutti. È un po’ come paragonare una Rolls-Royce a una Fiat: fanno pezzi unici e di un certo tipo.

Noi in Italia, invece, a parte qualche eccezione, facciamo grandi numeri con una produzione più standardizzata e ottimizzata. Le nostre barche sono pensate per navigazioni più tranquille, magari sotto i faraglioni di Capri, rispondendo a un segmento di mercato diverso, ma di grande successo.”

Con la crescita del segmento di superyacht sopra i 50 metri anche in Italia, non si rischia che questa differenza di peso e stabilità diventi ancora più evidente?

“Sì, penso di sì. La comodità di navigazione, la sicurezza e il senso di stabilità che si percepiscono su una barca con un certo peso e principi costruttivi solidi sono fattori fondamentali. Magari un armatore non li valuta sulla prima barca, ma dopo averne avute due o tre, la sua visione cambia. I costi di produzione sono ovviamente diversi, ma credo che a un certo punto la sostanza tornerà a prevalere sull’apparenza. L’enfasi sul “wow factor” che si vede nei saloni non rende giustizia alla vera esperienza di navigazione, che si basa su solidità e affidabilità.”

Parlando delle condizioni degli equipaggi, come si gestiscono le rotazioni e gli stipendi in un settore così esigente?

“Le lunghe permanenze a bordo sono gestite attraverso un sistema combinato di retribuzione e rotazioni. Sebbene gli stipendi siano competitivi, il vero fattore determinante sono le mance, che possono anche superare la paga base. Su una barca come la nostra le mance vengono divise equamente, e l’anno scorso hanno superato i 20.000 euro. Questo permette a una junior stewardess di guadagnare somme importanti. Per trattenere i professionisti, in particolare gli ufficiali di macchina che spesso provengono dal mercantile, si offrono rotazioni stabili (ad esempio 2-on/2-off). Queste soluzioni sono il modo in cui il settore bilancia le esigenze del lavoro con il benessere dell’equipaggio.”

Sul tema della sicurezza, ha sollevato dubbi sulle carenze normative e sulle differenze di approccio tra la nautica commerciale e quella privata. Quali sono, a suo avviso, le lacune più urgenti da colmare?

“La lacuna più grande è la mancanza di uno standard unico. Le regole sulla sicurezza a bordo dovrebbero essere identiche per tutti, a prescindere dal tipo di navigazione. Oggi, il noleggio occasionale permette a una barca privata di operare come una commerciale senza dover sottostare agli stessi rigorosi regolamenti (Solas, Ism, Mlc, titoli e safe manning). Questo crea una pericolosa disparità di trattamento per equipaggi e passeggeri. Non si capisce perché un ospite che paga un noleggio non debba avere gli stessi standard di sicurezza dell’amico dell’armatore. Sulle barche private non è nemmeno obbligatorio il “megger test” per le dispersioni elettriche, una lacuna grave se si considera che le statistiche dimostrano che molti incendi sono legati proprio a impianti elettrici. A mio avviso, l’industria ha bisogno urgente di regole chiare e precise che tutelino davvero la sicurezza di tutti.”

A proposito di incendi, l’industria spinge sempre più verso la sostenibilità e la propulsione elettrica. Quali rischi specifici emergono con l’uso delle batterie al litio, e come dovremmo gestirli?

“L’elettrico è un tema caldo, ma i “toys” elettrici e le loro batterie al litio stanno diventando un grosso problema. In caso di incendio, sono praticamente inarrestabili. Io, ad esempio, le tengo in coperta, pronte per essere buttate a mare se necessario. So che qualcuno potrebbe obiettare, ma il danno di un’intera nave in fiamme con decine di migliaia di litri di gasolio sarebbe infinitamente peggiore. Lo “steer to green” rischia di essere un’ipocrisia se non si accompagna a una regolamentazione chiara e a protocolli di sicurezza adeguati. Ho comunque sentito che alcuni progettisti stanno pensando di posizionare le batterie tra gli scafi dei catamarani, pronte per essere sganciate in mare. C’è ancora molto da fare per creare standard che tutelino davvero sia la sicurezza che l’ambiente, senza compromessi.”

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Com.te Alberto Zambelli 1 Alberto Zambelli com.te Oceanco 53 m Com.te Alberto Zambelli con l’equipaggio Com.te Alberto Zambelli – Com.te Alberto Zambelli equipaggio Alberto Zambelli com.te Com.te Alberto Zambelli

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